LA REGALITA’ CRISTIANA VISSUTA E TESTIMONIATA DA

FRANCESCO II DI BORBONE RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE

 

 (di Don Luciano Rotolo)

 

La concezione della regalità nella Dinastia dei Borbone delle Due Sicilie si può senz’altro definire un unicum nel panorama monarchico e politico.

Infatti, ad eccezione di Re Carlo di Borbone (VII di Napoli, III di Sicilia e poi, dal 1759, III di Spagna) che nel 1734 diede inizio alla dinastia borbonica napoletana e siciliana, nessun Sovrano ha celebrato un rito di incoronazione al momento di assurgere al Trono.

Si diventava Re alla morte del predecessore e, trascorsi i giorni del lutto, si assisteva semplicemente ad un “Te Deum” di ringraziamento e alla Benedizione Eucaristica nel Duomo di Napoli; la cerimonia si concludeva con la visita di devozione alla Real Cappella di San Gennaro.

Per quale motivo non era prevista una cerimonia di incoronazione?

La risposta la offre la tradizione orale che ha saputo tramandare tanti frammenti di vita rispecchianti la forma mentis e le convenzioni sociali, culturali e spirituali del Regno delle Due Sicilie.

Il capitano Alessandro Romano, vera e propria fonte vivente di storia borbonica, racconta a tal proposito questo gustoso e significativo aneddoto; un giorno un popolano, ricevuto in udienza da re Ferdinando II (il giovedì era il giorno tradizionale in cui il Sovrano riceveva liberamente quanti desideravano sottoporgli richieste, problematiche o denunce), con la confidente curiosità propria dei semplici, chiese al Re il motivo per cui non venisse mai raffigurato con la Corona Reale sul capo. Ferdinando II, dinanzi a questa innocente domanda, immediatamente interruppe il buon popolano dicendo: “Cristo è il Re e la Vergine Immacolata è la Sovrana che regnano sulle Due Sicilie; e io sono soltanto il loro umile servitore”.

Ancora oggi, infatti, nella Reggia di Caserta o in altri siti reali si possono ammirare le tele dei ritratti dei Sovrani borbonici che costantemente riportano la corona reale posizionata sempre al lato, in alto o in basso, ma mai sulla testa o afferrata con un gesto possessivo delle mani.

In breve, secondo la concezione monarchica dei Borbone Due Sicilie, il re era semplicemente colui che governava in nome di Cristo e di Maria Immacolata. I veri Sovrani del Regno, quelli che appunto regnavano, erano Cristo e l’Immacolata, mentre i Sovrani che sulla terra si succedevano erano soltanto dei semplici uomini che governavano per Loro conto.

In una siffatta concezione culturale, le cerimonie di incoronazione non avevano più senso in quanto, nel tempo, cambiavano i “governatori” del Regno, ma i Sovrani veri (Cristo e Maria) restavano per sempre.

Ne conseguiva che i Sovrani dovessero seguire e osservare, come una sorta di carta costituzionale o fondativa del Regno, soltanto il Vangelo e la sua dottrina sociale ispirando costantemente le proprie scelte e decisioni ai valori evangelici, ponendo sempre il popolo e gli ultimi al primo posto sull’esempio di Cristo Signore.

 

La monarchia borbonica delle Due Sicilie aveva, dunque, una connotazione fortemente popolare e cristiana; i Sovrani si recavano liberamente nei quartieri popolari e si fermavano con naturale semplicità a parlare e ad interagire con la gente, Ferdinando II addirittura non disdegnava di recarsi nel quartiere di Santa Lucia per chiedere anche dei consigli su come agire nei momenti cruciali del Regno.

Nel XVIII secolo, inoltre, vigeva la consuetudine che i Principi Reali, in un giorno prima del Natale servissero a tavola il personale di servizio; iniziativa sociale, che si teneva nella Reggia di Portici, fortemente incoraggiata e voluta dai Sovrani borbonici e finalizzata ad educare i propri figli al rispetto dei subalterni e del loro delicato e prezioso servizio.

 

Francesco II respira quindi e cresce in questo humus culturale, ideale e spirituale che lo formerà a vivere la sua regalità con il prezioso supporto dei suoi precettori e insegnanti (in particolare gesuiti e scolopi).

Non desta quindi meraviglia che egli si concepisse come un semplice rappresentante e governatore in nome di Cristo Re; come Cristo si era fatto Servo di tutti, così la sua regalità era un servizio alla gente; come Cristo aveva donato la sua vita per la salvezza dell’umanità, così egli doveva donare tutte le sue energie per il benessere e la difesa del suo popolo; come Cristo aveva innalzato gli ultimi e i poveri così egli doveva dare voce, speranza e aiuto agli ultimi e ai poveri del suo popolo.

Infine, doveva conservare, come Cristo la conservò fino all’ultimo dinanzi a Pilato, al Sinedrio e alla crocifissione, la dignità della sua persona che lo porterà a respingere compromessi e scorciatoie (ad esempio la proposta avanzata dal governo sabaudo, tramite l’imperatore francese Napoleone III, di restituzione dei beni personali di Casa Borbone in cambio di un riconoscimento del nuovo stato italiano) e a vivere senza lamentele e recriminazioni la condizione di pesante ristrettezza economica in cui verrà progressivamente a trovarsi.

Alla luce di quanto finora esposto possiamo quindi ripercorrere i solenni tre giorni con i quali, trascorso il periodo di lutto per la morte del padre, Francesco II nel 1859 divenne Re del Regno delle Due Sicilie. 

Giorni nei quali non ci fu, come da tradizione, alcuna cerimonia di incoronazione, ma esclusivamente preghiera, bagni di folla e feste per tutti. A questo proposito è illuminante la testimonianza di Mons. Luigi Del Pozzo nella sua Cronaca Civile e Militare delle Due Sicilie, dove al giorno 24 luglio 1859 scrive testualmente: “Prima delle tre feste ordinate per l’esaltazione al trono di Francesco II. Questa festa è tutta di carattere religioso”. Il racconto di questa prima giornata di festa conferma la concezione monarchica dei Borbone Due Sicilie, non prevedendo assolutamente alcuna cerimonia di incoronazione.

Seguiamo ancora le parole di Mons. Del Pozzo che racconta qualcosa del festoso corteo dei Sovrani nelle strade di Napoli: “Dalla Reggia a Port’Alba e da Port’Alba  fino al Duomo, auguste erano le strade alla calca giuliva ,desiderosa di contemplar le Maestà loro e bearsi nella amate sembianze. I veroni poi, i davanzali, i terrazzi, perfino i campanili, perfino i tetti, erano gremiti di gente senza numero…Impossibile sarebbe descrivere la magnificenza degli abiti, e delle perle, delle gemme, e dei diamanti adornanti la testa delle dame, sfavillanti alla pura luce del sole; impossibile il magnifico apparato dè trapunti drappi, delle seriche cortine, dei fiammeggianti damaschi di che rifulgevan le mura; impossibile numerar gli archi trionfali, le piramidi, le corone, i trofei,le sacre immagini,del Re e della Regina di che abbelivasi tutta la città, mentre le reali bandiere su i forti, e tutti i legni in rada, nostrani e stranieri, pavesati erano si in gran gala”.

Mons. Del Pozzo passa quindi a descrivere il Duomo e la celebrazione che ne seguì: “Il maggior tempio, intanto, che doveva accogliere le MM. LL. era magnificamente adorno.  Il cornicione dell’abside veniva coperto di serici drappi disposti pittorescamente, i finestroni, il coro e il gruppo della Vergine e degli Angeli, grandeggiante sull’altare maggiore, vedevansi ricchi di vaghi merletti. Il trono con due sedie, inginocchiatoi e cuscini, sorgeva in cornu Evangelii, ed a fronte di esso dall’altra parte innalza vasi un palchetto per le LL. AA. RR. Poco lungi da questo nella navata, sulle stesse linee, l’una dirimpetto all’altra, si elevavano due tribune, la prima per Corpo Diplomatico… la seconda pei Cavalieri e le Dame ascritte al libro d’oro e ai Registri.  In mezzo erano situate due amplissime orchestre, dove il maestro di Cappella Parisi dirigeva la musica.Sua Eminenza si condusse da prima con sue Rev. Canonici al faldistorio preparato appo l’altare maggiore in Cornu Epistolae, e quindi disse il versetto Salvum  fac Regem nostrum Franciscum Secundum et Reginam  Sophiam;  e poscia indossati i sacri arredi, pontificò la Messa dello Spirito Santo.Terminata questa, venne esposto il Venerabile e cantato il Te Deum.  Tanto all’elevazione dell’ostia, quanto alla benedizione del Divinissimo, le loro Reali Maestà, invitate dal cerimoniere con un profondissimo inchino, scesero dal trono seguite dal rispettivo corteggio ed inginocchiaronsi rimpetto all’altare maggiore sopra cuscini a ciò preparati.   Alla intonazione dell’Inno Ambrosiano i forti e ‘l naviglio da guerra replicarono le loro salve, e squillarono tutte le campane della capitale.  Dopo la benedizione l’Eminenza Sua, deposti i sacri arredi e indossata la mozzetta, presentò secondo l’uso i mazzolini di fiori alle Loro Maestà ed Altezze Reali.  Le quali, dopo ciò, si condussero alla Cappella del Tesoro di San Gennaro, ove era già stata esposta la Testa del miracoloso Patrono.  All’ingresso di essa Cappella i Deputati del Tesoro ebbero l’onore di ricevere le prelodate Loro Maestà ed Altezze Reali che dopo tale omaggio andarono adorare genuflesse su cuscini sovrapposti ad uno strato di velluto.  Mentre le Loro Reali Maestà baciavano la sacra Reliquia, si vide il prezioso Sangue abbassarsi e liquefarsi, non ostante che la Testa del Santo fosse su l’Altare, avvenimento nuovo a memoria d’uomo, da tutti udito con divota compiacenza ed a ragione riguardato come faustissimo presagio.  Ricevuti poi gli omaggi della deputazione cò mazzolini consueti, le Loro Maestà ed Altezze Reali si ritrassero dal tempio accompagnate dall’Eminenza Sua e dà Rev. Canonici fino alla soglia, e dal Corpo di Città fino alle Carrozze: e tornarono alla Reggia col medesimo Corteggio”.

 

Come si evince da questa testimonianza, il vero protagonista della cerimonia di inizio ufficiale del Regno di Francesco II era il Signore Gesù, adorato e glorificato.

Nella seconda giornata di festa, Mons. Del Pozzo ci dice che nel Reale Palazzo di Napoli si tenne il solenne baciamano al nuovo Sovrano da parte delle persone previste dal Real Cerimoniale.

Nella terza giornata di festa, i Sovrani accolsero alle h. 20.00 presso l’appartamento di etichetta le Dame di Città; subito dopo si recarono al Teatro di San Carlo dove si tenne la serata di gala e venne rappresentato uno spettacolodal titolo “Danza Augurale”.

Infine, in data del 24 luglio, vennero rese note alcune decisioni prese dal Sovrano a favore della popolazione: organizzazione della pulizia di Napoli e delle sue strade; puntuale verifica delle opere pubbliche a favore dei cittadini che i Comuni avrebbero dovuto realizzare per il pubblico benessere;  miglioramento della salubrità e delle condizioni carcerarie;  costruzione di nuovi fari lungo le coste del Regno; verifica e controllo dell’operato dei Giudici e dei Cancellieri di Circondario; aumento dello stipendio ai giudici per renderli meno vulnerabili e sensibili alla corruzione.

Aver decretato queste misure nel primo giorno dei festeggiamenti per la sua esaltazione al Trono delle Due Sicilie, significava per il Servo di Dio Francesco II far sapere al popolo che egli si era immediatamente votato al suo servizio.

 

 

Nel suo breve regno il Servo di Dio Francesco cercò costantemente di vivere questa attenzione nei confronti della popolazione della quale si sentiva Re, cioè servo in Cristo e come Cristo: nell’ottobre del 1859 condannò l’accentramento amministrativo e semplificò la burocrazia per non far inceppare, in inutili giri di carte, le richieste presentate dalle persone; dimezzò la sovraimposta sul macinato, abolì le tasse sulle case abitate dalla povera gente, approvò casse di risparmio, monti frumentari  e di pegni per evitare che la gente cadesse nelle mani degli usurai;  aprì diversi ospedali civili ed educandati per orfani;  aggiunse nuove Cattedre ai Collegi universitari del Regno;  ordinò che in ogni Comune le scuole primarie fossero funzionanti e stabilì che, in caso di difficoltà dei Comuni nel reperire i fondi necessari per mantenerle,  intervenissero  le Province;  favorì l’irrigazione dei campi e la costruzione di nuovi acquedotti;  diede impulso alla costruzione di nuove linee ferroviarie chiedendo conto in caso di ritardi dei privati nelle costruzioni già accordate;  con decreto del 28 aprile 1860 prescrisse l’ampliamento della rete con la linea Napoli -Foggia e Foggia-Capo d’Otranto;  ordinò le linee Basilicata - Reggio Calabria  e quella per gli Abruzzi, e già pensava alla Palermo – Messina – Catania.

Essendosi creata una carestia di grano, mentre i ribelli già accusavano il Re di gravare i poveri di un tale fardello, egli dava ordine di distribuire alle popolazioni, a prezzo ridottissimo, intere partite di grano estero con notevole perdita economica da parte del governo.

Istituì una Commissione per il miglioramento urbano di Napoli e aveva in mente, a tale riguardo, di costruire mulini a vapore governativi per offrire la macinazione gratuita dei grani, in modo da liberare la popolazione meno abbiente dal peso dell’odiosa tassa sul macinato.

In quest' ottica possiamo comprendere la sua scelta di abbandonare Napoli, malgrado potesse militarmente difenderla. Il pensiero di combattere strada per strada nell’antica Capitale delle Due Sicilie, di far morire o di creare disagi alla popolazione civile inerme, il timore di interrompere, a causa di eventi bellici, il lavoro gestito da tutte le opere pie e caritatevoli a favore dei poveri e degli orfani, il terrore di danneggiare le tante chiese e i monumenti della Città, lo indussero a lasciarla senza colpo ferire il 6 settembre del 1860. Per questo venne accusato di debolezza e viltà e il governo sabaudo sbandierò l’accaduto alle cancellerie europee come implicita rinuncia al Regno; pochi compresero che il Re aveva, ancora una volta, incarnato il Cristo che prende su di sé la croce per toglierla dalle spalle della gente.

 

Il senso cristiano con cui Francesco II vive la sua regalità come servizio al suo popolo lo si riscontra anche nelle prolungate ore di lavoro dedicate, nel suo studio, sia al bene delle Stato sia a quello della popolazione di cui si sente padre e custode in nome di Cristo Re. Nella sua lettera del 28 settembre 1859 dichiara al generale Filangieri, Presidente del Consiglio dei Ministri del Real Governo, che “dopo 13 ore di continuo lavoro mi alzo dalla sedia”; Filangieri, preoccupato per questi ritmi di lavoro che il Sovrano gli ha esternato, nella sua risposta del 30 settembre 1859 afferma: “Io lessi con orrore che ieri l’altro V. M. ha lavorato 13 ore consecutivamente. La coscienza non permette ad un Sovrano eminentemente cristiano di prodigare in tal modo quella esistenza preziosa per nove milioni di sudditi”. Anche nella lettera che Francesco II scrive a Filangieri il 9 0ttobre 1859, il giovane Sovrano lamenta il fatto che non può riposarsi o avere dei diversivi a causa della enorme mole di lavoro e che gli tocca improvvisare mansioni che non gli spettano: “a nessuna parte posso andare perché non ò che lasciare a sbrigare affari.  E’ possibile mai che mi tocca fare il Re, il Ministro di Guerra, cento altre cose, ed in ultimo anche l’arrepezzatore?”.

Tutto questo Francesco II lo vive, al di là dell’amichevole sfogo con l’anziano generale, come un dovere e una fedeltà che deve allo Stato, al suo ruolo e alla sua coscienza cristiana.

 

Don Massimo Cuofano, ispiratore della nostra Fondazione “Francesco II delle Due Sicilie" così scriveva riguardo alla concezione regale del nostro caro Re e Servo di Dio: “Quando Dio mi chiamerà al soggiorno della sua gloria, mi piegherò dinanzi alla sua Volontà e lo ringrazierò”. Queste parole le ha espresse Re Francesco II di Borbone, e in questa visione ha vissuto la sua esperienza terrena. E’ la visione dell’uomo giusto, che è proiettato a realizzare nella propria vita tutto il bene possibile, sapendo di doversi incontrare con il solo Signore della storia, nelle cui mani dovrà versare i talenti ricevuti, al solo a cui dovrà cantare il suo ringraziamento. Francesco dunque sapeva di dover vivere la sua esperienza di Re cristiano, non badando ai propri interessi e alle ambizioni del potere, ma al bene della sua gente, alla custodia della sua terra e del suo popolo nella pace, nella concordia, nell’amore.

Proprio per queste alte virtù un suo contemporaneo lo paragonò a due grandi sovrani santi, San Luigi di Francia e San Ferdinando Re. Non hai mai lesinato di manifestare il suo cattolicesimo, che sin dall’infanzia è stato insito in lui, il figlio della Beata Maria Cristina; un cattolicesimo mai bigotto e vano, ma profondamente legato alla conoscenza della Sacra Scrittura, della Teologia e della Dottrina della Chiesa. E non poteva non essere altamente qualificata la sua fede, cresciuta alla scuola dei Gesuiti e Scolopi napoletani, tra i più formati culturalmente e teologicamente.    

Inoltre certamente non sono mancati rapporti con tanti uomini di fede del suo tempo, in particolare con il napoletano San Gaetano Errico, fondatore dei Missionari dei Sacri Cuori, consigliere di Re Ferdinando II, e frequentatore della Famiglia Reale; con il santo francescano Ludovico da Casoria, con il quale collaborò in alcune sue fondazioni, anch’egli amico e frequentatore della Casa Reale sin dai tempi della Regina Maria Cristina".

 

 

La sua amicizia e il suo rapporto poi con il Santo Romano Pontefice, il Beato Pio IX, non hanno fatto altro che rafforzare la sua fede e il suo amore alla Chiesa Cattolica.Tanti hanno voluto forzatamente travisare questa fede, volendo fare di lui un personaggio superstizioso, bigotto e fatalista, invece la fede di Francesco di Borbone fu vissuta nella vera devozione, rafforzata quotidianamente dalla preghiera e dai sacramenti e con un vissuto di vera carità. Il modello di regalità di Francesco di Borbone è stato il Cristo Re e come il Cristo è Sposo generoso e Re amabile della Sua Chiesa, così lui è stato, nella stessa misura, lo “Sposo” del suo popolo, e come “Re”, il padre disponibile, generoso, attento, consapevole, pronto al sacrificio e alla morte.

Ha cercato, pur dovendo soffrire lui, di portare meno sofferenze e distruzioni al suo popolo e alla sua terra.

Ha salvaguardato la città di Napoli e ha lasciato aperta la via della speranza e della riparazione, pur dovendo lui stesso soffrire rinunce, prove, la miseria e l’esilio.

A chi gli ricordava che “quella ingiusta rivoluzione” lo aveva ridotto a vivere nella povertà, egli rispondeva che “tanti del suo popolo erano nella stessa situazione, e lui non era migliore di loro”, e che “un altro Re, il più grande dei Re, il Re dei Re, non aveva avuto neppure un sasso dove poter appoggiare la sua testa”.

Per questo non ha avuto paura mai di rinunciare anche al poco che aveva, pur di soccorrere la sua gente, i suoi poveri mantenendo viva la sua “pietà” verso Dio e verso il prossimo, con un esempio di grande umanità e cristianità, che non lasciava insensibili quelli che avevano la gioia di incontrarlo e conoscerlo.

Fu un esempio per quella piccola cittadina sulle Alpi trentine che lo vide ospite umile e discreto.

Il primo, ogni mattina, alla celebrazione della Santa Messa e, al tramonto, nella recita del Santo Rosario, nella bellissima Chiesa Collegiata della Vergine Assunta in Cielo, in Arco di Trento.  Sempre sereno e amabile con tutti, seduto al piccolo bar del paese, nascosto nella sua semplicità cordiale ed affabile.

Fu un esempio per i suoi familiari e per quanti l’avevano voluto seguire nel suo esilio, con la sua vita eroica di pazienza, di uomo mite e paciere, uomo di preghiera e carità”.

 

 

Per comprendere appieno la concezione regale incarnata da re Francesco II, inoltre, non si può fare a meno di far riferimento al toccante Proclama da lui emanato l’8 dicembre 1860 (Festa di Maria SS. ma Immacolata, Patrona del Regno delle Due Sicilie) dalla piazzaforte assediata di Gaeta.

Qui troviamo espressi tutti i suoi sentimenti e la giustificazione di alcune sue cruciali scelte politiche, ancora oggi fraintese e interpretate come errate, deboli o vili, prese invece proprio a partire dalla sua concezione di Re cristiano.

Ecco il testo del Proclama; alcune parti sono state sottolineate per evidenziare i sentimenti espressi da Francesco II:

 

 

PROCLAMA REALE

 

Da questa Piazza dove difendo più che mai la mia corona l’indipendenza della patria comune, si alza la voce del vostro Sovrano per consolarvi nelle vostre miserie, per promettervi tempi più felici.

Traditi ugualmente, ugualmente spogliati, risorgeremo allo stesso tempo dalle nostre sventure; chè mai ha durato lungamente l’opera della iniquità, né sono eterne le usurpazioni.

 

Ho lasciato perdersi nel disprezzo le calunnie; ho guardato con isdegno i tradimenti, mentre che tradimenti e calunnie attaccavano soltanto la mia persona; ho combattuto non per me ma per l’onore del nome che portiamo.  Ma quando veggo i sudditi miei che tanto amo in preda a tutti i mali della dominazione straniera, quando li vedo come popoli conquistati portando il loro sangue e le loro sostanze ad altri paesi, calpestati dal piede di straniero padrone, il mio cuore napolitano batte indegnato nel mio petto, consolato soltanto dalla lealtà di questa 

prode armata, dallo spettacolo delle nobili proteste che da tutti gli angoli del Regno si alzano contro il trionfo della violenza e dell’astuzia.

 

Io sono napolitano; nato tra voi, non ho respirato altra aria, non ho veduto altri paesi, non conosco altro che il suolo natio.   Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno: i vostri costumi sono i miei costumi: la vostra lingua è la mia lingua; le vostre ambizioni le mie ambizioni.

Erede di una antica dinastia che ha regnato in queste belle contrade per lunghi anni ricostituendone l’indipendenza e l’autonomia, non vengo dopo avere spogliato del loro patrimonio gli orfani, dei suoi beni la Chiesa ad impadronirmi con forza straniera della più deliziosa parte d’Italia.

 

Sono un Principe vostro che ha sacrificato tutto al suo desiderio di conservare la pace, la concordia, la prosperità tra’ suoi sudditi. Il mondo intero l’ha veduto; per non versare il sangue ho preferito rischiare la mia corona. I traditori pagati dal nemico straniero sedevano accanto a’ fedeli nel mio consiglio; ma nella sincerità del mio cuore, io non poteva credere  al tradimento. 

Mi costava troppo punire; mi doleva aprire, dopo tante nostre sventure, un’era di persecuzioni; e così la slealtà di pochi e la clemenza mia hanno aiutata l’invasione piemontese pria per mezzo degli avventurieri rivoluzionari e poi della sua armata regolare, paralizzando la fedeltà de’ miei popoli, il valore de’ miei soldati.

In mano a cospirazioni continue, non ho fatto versare una goccia di sangue, ed hanno accusato la mia condotta di debolezza.

Se l’amore il più tenero pe’ miei sudditi, se la fiducia naturale della gioventù nella onestà degli altri, se l’orrore istintivo al sangue meritano questo nome, sono stato certamente debole.

 

Nel momento in che era sicura la rovina de’ miei nemici, ho fermato il braccio de’ miei generali per non consumare la distruzione di Palermo, ho preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale per non esporla agli orrori di un bombardamento, come quelli che hanno avuto luogo più tardi in Capua ed in Ancona.

Ho creduto nella buona fede che il Re del Piemonte che si diceva mio fratello, mio amico, che mi protestava disapprovare la invasione di Garibaldi, che negoziava col mio governo una alleanza intima pe’ veri interessi d’Italia, non avrebbe rotto tutti i patti e violate tutte le leggi, per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né dichiarazioni di guerra.

Se questi erano i miei torti, preferisco le mie sventure a’ trionfi  de’ miei avversari.

 

Io aveva data una amnistia, aveva aperto le porte della patria a tutti gli esuli, conceduto a’ miei popoli una Costituzione. Non ho mancato certo alle mie promesse.

Mi preparava a garantire alla Sicilia istituzioni libere che consacrassero con un parlamento separato la sua indipendenza amministrativa ed economica rimuovendo ad un tratto ogni motivo di sfiducia e di scontento.

Aveva chiamato a’ miei consigli quegli uomini che mi sembrarono più accettabili all’opinione pubblica in quelle circostanze, ed in quanto me lo ha permesso l’incessante aggressione di che sono stato vittima, ho lavorato con ardore alle riforme, a’ progressi, ai vantaggi del comune paese.

Non sono i miei sudditi che mi hanno combattuto contro; non mi strappano il Regno le discordie intestine, ma mi vince l’ingiustificabile invasione d’un nemico straniero.

Le Due Sicilie, salvo Gaeta e Messina, questi ultimi asili della loro indipendenza, si trovano nelle mani del Piemonte. Che ha dato questa rivoluzione ai miei popoli di Napoli e di Sicilia? Vedete lo stato che presenta il paese. Le finanze un tempo così floride sono completamente rovinate: l’amministrazione è un caos; la sicurezza individuale non esiste. Le prigioni sono piene di sospetti; invece della libertà, lo stato di assedio regna nelle province, ed un generale straniero pubblica la legge marziale, decreta la fucilazione istantanea per tutti quelli dei miei sudditi che non s’inchinano alla bandiera di Sardegna.

L’assassinio è ricompensato, il regicidio merita una apoteosi; il rispetto al culto santo de’ nostri Padri è chiamato fanatismo;i promotori della guerra civile, i traditori del proprio paese ricevono pensioni che paga il pacifico contribuente. L’anarchia è da per tutto. Avventurieri stranieri han rimestato tutto, per saziare l’avidità o le passioni dei loro compagni.

Uomini che non hanno mai veduta questa parte d’Italia, o che hanno dimenticato in lunga assenza i suoi bisogni, formano il vostro governo.  In vece delle libere istituzioni che io vi aveva date e che era mio desiderio sviluppare, avete avuta la più sfrenata dittatura, e la legge marziale sostituisce adesso la costituzione.  Sparisce sotto i colpi de’ vostri dominatori l’antica monarchia di Ruggiero e di Carlo III, e le Due Sicilie sono state dichiarate province di un Regno lontano. Napoli e Palermo saranno governati da prefetti venuti da Torino.

Ci è un rimedio per questi mali, per le calamità più grandi che prevedo.

La concordia, la risoluzione, la fede nell’avvenire.

Unitevi intorno al trono de’ vostri padri. Che l’oblio copra per sempre gli errori di tutti; che il passato non sia mai pretesto di vendetta, ma pel futuro lezione secolare. Io ho fiducia nella giustizia della Provvidenza, e qualunque sia la mia sorte, resterò fedele a’ miei popoli ed alle istituzione che ho loro accordate.

Indipendenza amministrativa ed economica tra le due Sicilie con parlamenti separati; amnistia completa per tutt’i fatti politici; questo è il mio programma, fuori di queste basi non ci sarà pel paese, che dispotismo o anarchia.

Difensore della sua indipendenza, io resto e combatto qui per non abbandonare così santo e caro deposito.  Se l’autorità ritorna nelle mie mani sarà per tutelare tutt’i diritti, rispettare tutte le proprietà, garantire le persone e le sostanze de’ miei sudditi contro ogni sorta di oppressione e di saccheggio.

    

E se la Provvidenza nei suoi alti disegni permette che cada sotto i colpi del nemico straniero l’ultimo baluardo della monarchia, mi ritirerò con la coscienza  sana, con incrollabile fede, con immutabile risoluzione;   ed aspettando l’ora inevitabile della giustizia, farò i più fervidi voti per la prosperità della mia patria, per la felicità di questi popoli che formano la più grande e più diletta parte della 

mia famiglia. Preghiamo il sommo Iddio e la invitta Immacolata protettrice speciale del nostro paese, onde si degnino sostener la nostra causa.

 

 Gaeta 8 Dicembre 1860 - FRANCESCO

 

 

In queste parole Francesco II esprime tutto sè stesso.

Sa di essere accusato di debolezza, di incapacità, di viltà, di scelte politiche errate e controproducenti.  Ma egli ricorda che queste scelte sono state fatte per evitare bagni di sangue tra la popolazione civile innocente, per offrire perdono e dialogo a tutti, per rifuggire dalla violenza e dagli orrori della guerra, perché come padre di un popolo in nome di Cristo Re, non può compiere scelte che si possano rivelare dannose e ingiuste soprattutto per i più umili e indifesi. Ha preferito abbandonare Palermo e Napoli per salvare le città e i loro abitanti; ha preferito andare fino in fondo nella ricerca di dialogo e di conciliazione con tutti piuttosto che avviare repressioni e scelte reazionarie; ha preferito le pesanti accuse rivoltegli piuttosto che venire meno alla sua coscienza di cristiano convinto. E questo primato della sua coscienza cristiana lo porta anche ad assumere un concreto distacco dal potere, rimettendosi alla Provvidenza di Dio per il suo futuro.

In questo retroterra culturale e cristiano si può anche comprendere la sua scelta di non portare con sé né i beni dello Stato né quelli di famiglia (che verranno immediatamente confiscati dal governo garibaldino prima e, in seguito da quello sabaudo).  Scelta che sarà causa delle ristrettezze economiche patite durante l’esilio. Nella mentalità di Francesco II albergava il senso estremo della correttezza e del rispetto. Non credeva che Casa Savoia sarebbe scesa così in basso da non restituire ai suoi legittimi proprietari i beni personali di Casa Borbone (tra questi c’erano anche la dote di sua madre la Beata Maria Cristina e le doti matrimoniali per le sue sorelle).

Per quanto riguarda i beni dello Stato, il Servo di Dio era troppo onesto per pensare di approfittarne, preferendo affermare che tutto ciò che era dello Stato, in ultima analisi, apparteneva al popolo; per questo dalla Reggia di Napoli portò con sé soltanto pochi oggetti e perlopiù di carattere devozionale. Anche per questa scelta, dettata dalla coerenza interiore con il suo essere re cristiano, ancora oggi viene accusato di poca avvedutezza e scaltrezza. In realtà Francesco II non era un ingenuo sprovveduto, ma una persona con una coscienza così modellata sul Vangelo da essere incapace di slealtà e di disonestà nei confronti di chicchessia.

Francesco II rimane Padre e Re dei suoi popoli in nome di Cristo Re anche nei lunghi, sofferti e amari anni di esilio prima a Roma e poi a Parigi. Non abbandona neanche per un istante il suo ruolo e la sua missione alle quali, anche se lontano, si sente consacrato per sempre. Per questo la sofferenza dei suoi popoli sembra fondersi con quella sua personale e diventare una cappa oscura e pesante che, solo nella fede e nella confidenza in Dio, diventa sopportabile e comunque aperta alla speranza.

Troviamo questi sentimenti e questa consapevolezza espressi nel suo diario personale. Nella pagina del primo gennaio 1866 si legge infatti: “l’anno 1865 si è chiuso: è il quinto che passiamo in questa terra ospitale (si tratta di Roma), i dolori da me provati in questo sesto lustro di mia penosa esistenza superarono tutti quelli dei cinque precedenti, eccetto solo la sventura del 22 maggio 59 (è la data in cui morì suo padre e quindi divenne Re). Parenti, amici, confidenti indifferenti e poi le cose cospirarono a rattristarmi.  I governanti in gran parte si accecarono e i popoli s’impazzirono. L’ingiusto fu coronato e il giusto conquiso, e come nel grande coì nel piccolo.  Grazie però debbo rendere ad un eletto numero di compatriotti per la loro fedeltà accoppiata a nobile procedere, ed a molti nativi di qui che mi colmarono d’ogni gentilezza: ma tradirei il vero se dimenticassi la Persona Augusta del Sovrano Pontefice che mi fè sempre da Padre, pel quale professerò gratitudine finchè avrò vita “.

Così è scritto ancora nel suo Diario al primo gennaio 1871, dove la sofferenza personale si unisce a quella del suo popolo che è stremato da una pesante tassazione che strangola ormai tutte le famiglie: “Quest’anno comincia nel mentre perdura una guerra accanita tra due grandi popoli.  Roma guarda in sè prigione il Papa, ed armi pure italiane, ma ostili l’occupano.  Il mio paese geme da dieci anni sotto una occupazione che le pesa massime nelle riscossioni”.

Infine il Diario di Re Francesco II fa iniziare l’anno 1894 con una frase diversa da quelle con cui il Sovrano soleva iniziare il nuovo anno.  Infatti ogni anno Francesco II scriveva un pensiero che, come abbiamo visto, rispecchiava il suo stato d’animo e le sue speranze; nel 1894, anno della sua morte, il diario inizia con questa frase che diventa davvero un presagio di quanto accadrà: “l’uomo è creato da Dio per amarlo e servirlo in questa terra e goderlo eternamente nell’altra”.  Forse Francesco nel suo cuore sente che la sua missione di Sovrano dei popoli delle Due Sicilie in nome di Cristo Re sta per terminare e già guarda a quel premio, a cui da sempre ha anelato e che ormai sente prossimo dopo le tante amarezze e sofferenze affrontate sempre con straordinario coraggio e con profonda fede.

 

Ma la sua missione non si può concludere senza un doveroso richiamo al suo successore. Anch’egli, pur trovandosi lontano dal Regno e dal suo popolo, è chiamato comunque, prima di tutto, al dovere di essere Padre e Sovrano in nome di Cristo Signore. Sono le brevi parole che Francesco II rivolge a suo fratello Alfonso, Conte di Caserta e suo successore, in una lettera testamentaria che aveva vergato ad Arco il 18 novembre 1887 nella quale richiama il nuovo Capo della Real Casa alla sua dignità e al suo ruolo, anche se in esilio: “Mio carissimo Fratello Alfonso, Re in diritto tu sei dal momento della mia morte: ma non ne ài l’esercizio.  Tuo debito è di comunicare la mia morte e l’essermi tu successo… a mio avviso, non farei che annunziare semplicemente il mio decesso e che mi succedi, riserbando nelle mani di Dio lo esercizio dei tuoi doveri, che sono congiunti ai tuoi diritti”.

 

Concludiamo questa dissertazione con le parole dell’arciprete di Arco, mons. Chini, che nella sua memoria-testimonianza sul Servo di Dio così scrive: “Io vedeva però Sua Maestà costantemente nella chiesa, ai Sacramenti, alla S. Messa, quasi ogni sera al Rosario della Collegiata, al passeggio, o seduto qua e colà coll’Arciduca Alberto e sempre ne riportava l’impressione di singolare bontà, di gran modestia, e di persona che con grande eroismo sopporta, e vince le prove più dure colla rassegnazione e la fede d’un cristiano perfetto”.

 

 

 

 

 

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