Il Re cristiano che non si lasciò rubare la speranza
(di don Massimo Cuofano)
L’apostolo Pietro in una delle sue lettere scrive: "Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella Sua grande misericordia Egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, PER UNA SPERANZA VIVA, in un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce… Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere per un po’ di tempo afflitti da varie prove…" (1 Pt. 1, 3 segg.).
Per questo la speranza, insieme alla fede e alla carità, è una delle virtù teologali, cioè che trova la sua origine e il suo essere in Dio stesso. Infatti essa si fonda proprio nella fede in Cristo morto e risorto, il quale apre il nostro cuore alla certezza che Dio realizzerà le sue promesse di bene nel nostro futuro.
Essa è proprio quella virtù che mette in noi quel movimento, quell’ansia, quel desiderio di bene, che anche dinanzi alla prova e alle difficoltà non si ferma, e che si realizza proprio nel nostro cammino di fede e nelle opere di carità.
Più volte anche il Papa attuale, Papa Francesco, ci ha parlato della speranza cristiana, spingendoci a viverla pienamente, con una vita gioiosa e disponibile, senza pessimismi e scoraggiamenti, consapevoli che la nostra fiducia non è nelle vane promesse del mondo, ma si fonda nell’incontro con Gesù, un amico vero e sincero, che non ci lascia mai soli nei nostri continui scontri con i problemi e gli ostacoli, che a volte ci sembrano insormontabili.
La speranza, poi, ci fa vivere quelle virtù umani, che ci fanno davvero diventare sempre più capaci di cose grandi. Ci rende intrepidi e coraggiosi nelle difficoltà e nel pericolo, così da saper affrontare la vita in ogni situazione, sempre con uno sguardo positivo al futuro, pronti sempre a rialzarci nelle inevitabili cadute, e ricostruire la nostra esistenza. Ci rende forti nella testimonianza della fede, e pronti sempre a rendere conto della nostra speranza, specialmente nelle prove, nelle persecuzioni, nel pericolo, nella calunnia, seppure costasse lacrime e sofferenza, finanche la morte. Anima in noi la pazienza, cioè la capacità di saper attendere tempi migliori, proprio come l’agricoltore, che pazientemente attende il raccolto del suo lavoro e dei suoi sacrifici. Quella pazienza necessaria nelle circostanze dolorose, nei travagli della vita, nelle incomprensioni e nei tradimenti, nell’abbracciare quella croce inevitabile, che deve diventare compagna del nostro viaggio. Mette in noi la fiducia, in noi stessi, nel nostro prossimo, nelle circostanze della vita, pronti sempre a vivere bene l’attimo presente, avendo sempre uno sguardo positivo al domani, per ricominciare. Alimenta la nostra gioia, facendo trasparire da noi quella vitalità e serenità, che consola e conquista chi ci avvicina. Alimenta la nostra vita di preghiera, perché mai la prova e la sofferenza possano scoraggiare la nostra fiducia in Dio. E inoltre genera in noi le opere dell’amore, che sono proprio il frutto più autentico della nostra speranza. Esse sono proprio la pazienza, la benignità, l’umiltà, la mansuetudine, la mitezza, la fiducia, il perdono, la solidarietà, il rispetto, la lealtà, la giustizia, la verità.
Il cristiano è chiamato proprio a rivestirsi di questa speranza, come di una corazza, per poter vincere la sua battaglia e trovare il suo riposo in Dio.
Per questo più volte lo stesso Papa, di fronte al male e alle cattiverie che affliggono l’umanità, ci invita a non lasciarci mai derubare della nostra speranza.
Proprio in quest’ottica voglio riflettere con voi sulla vita buona di Re Francesco II di Borbone, questo cristiano autentico che non si è lasciato derubare della virtù della speranza. Possiamo davvero definirlo, proprio come lo chiamava il Beato Pio IX, il novello Giobbe. Provato dall’amarezza appena nato, reso orfano della sua santa mamma, quella mamma delle cui virtù umani e spirituali si è saputo nutrire, e dalla quale ha saputo apprendere che solo in Dio l’anima può trovare il riposo, e che Dio solo è la vera speranza dell’uomo, egli proprio in Dio ha posto le fondamenta della sua vita.
Ha saputo proprio imparare dalle prove e dalle amarezze della vita, da quelle ferite morali che hanno accompagnato il suo percorso, e dalle ingiustizie subite, che quel “mondo nuovo” che nasceva dalla “rivoluzione”, e che faceva del male, della forza bruta, della corruzione, del potere, della ricchezza, della violenza, della falsità, dell’iniquità e dell’ingiustizia, i nuovi valori di una società destinata a decadere, e che calpestava l’uomo, non poteva aver futuro. Dio solo basta!
Lo ripeteva a tanti, lo ha scritto, lo ha lasciato nella vita reale come testimonianza: non si illudano i potenti, senza la fede non vi può essere progresso civile, perché “l’insegna di Cristo è scudo di salvazione”. Su questo appunto ha poggiato la sua esistenza, mantenendo nella sua vita quella speranza viva, che nessuna difficoltà, iniquità o calunnia, tantomeno quella guerra subita ingiustamente, hanno potuto strappare dal suo cuore.
Davvero in lui si trova quella fortezza del combattente, che proprio rivestito della corazza di Cristo, e forte della speranza in lui, non teme quel presente carico di amarezze e vicissitudini, non ha paura delle calunnie, degli inganni e dei tradimenti, restando fermo nella sua sincerità e nella fiducia, sa guardare avanti con pazienza e serenità, oltre le tenebre e il buio, affidandosi alla Divina Provvidenza, e consapevole di dover rimanere al suo posto fino in fondo, per amore della verità, della giustizia e del suo popolo. << …Resto a combattere qui per non abbandonare un deposito così caro e così santo. Se ne ritornerà l’autorità ed il potere nelle mie mani, me ne servirò per proteggere tutti i miei diritti, rispettare tutte le proprietà, salvaguardare le persone ed i beni dei sudditi miei contro ogni oppressione e depredamento.
Se poi la Provvidenza nei suoi profondi disegni decreta che l’ultimo baluardo della monarchia cada sotto i colpi di un nemico straniero, io mi ritirerò con la coscienza senza rimproveri e con una risoluzione immutabile, ed attendendo l’ora della giustizia, farò i voti più ferventi per la prosperità della mia patria e per la felicità di questi popoli che formano la più grande e la più cara parte della mia famiglia”.
La sua speranza è sempre e solamente in vista del bene, della giustizia. Non ricerca i suoi interessi personali o il potere assoluto, ma il meglio per la sua gente. Per quel bene, che è “un santo deposito” ricevuto da Dio, egli è disposto a combattere. Com’è pronto, diversamente, dopo aver compiuto ogni suo dovere di Re, a fare la Volontà della Divina Provvidenza, accettando qualsiasi privazione, desiderando solo e sempre la felicità del suo popolo, restando fiducioso per il futuro.
Lascia come monito di speranza proprio questa fiducia nella giustizia divina, perché « Traditi egualmente, egualmente spogliati, risorgeremo allo stesso tempo dalle nostre sventure; ché mai ha durato lungamente l'opera della iniquità, né sono eterne le usurpazioni. »
Non lo hanno infatti abbattuto la privazione e la povertà, sapendo guardare anche in questa condizione all’unico bene necessario, Gesù Cristo. Sapendosi egli stesso immedesimare a tanti del suo popolo, che in quel momento particolare erano afflitti dalla povertà e dalle ingiustizie. Preferisce infatti piuttosto che corrompersi e lasciarsi “comprare” dai vincitori, restare povero ed esiliato, consapevole che “La restituzione del mio non mi adesca; quando si perde un trono, poco importa il patrimonio. Se l’abbia l’usurpatore o il restituisca, né quello mi strappa un lamento, né questo un sorriso. Povero sono, come oggi tanti altri migliori di me; stimo più la dignità che la ricchezza” .E in questa sua povertà lo conforta proprio il farsi compagno di Gesù Cristo, e a chi gli obietta questa sua triste condizione egli risponde: “un Re, il Re dei Re non aveva avuto neppure ove riposar la sua testa!”.
Più egli viene provato dalla malattia e dalle ingiustizie, tanto più alimenta la sua speranza, perché si sente un prediletto amato da Dio, e nella sofferenza non si è privato mai di fare “bene” il suo bene quotidiano. La sua giornata è divisa tra preghiera, lavoro e incontri. Un suo contemporaneo ha testimoniato che: “La vita di Francesco ll fu una serie di prove che dovevano condurlo ínsensibílmente alla tomba. In tutti questi suoi patimenti non desistette mai di domandare a Dio <<perché mai lo conservasse ancora in vita e che cosa desiderasse dal suo servo>>. Questo era il gemito che emetteva dal petto, quando le sue sofferenze divenivano troppo intense. Fu quasi sempre infermo, e tuttavia non desisteva mai dal lavoro. Il lavoro e i patimenti si divisero fra loro la vita di questo pio Re, che non ebbe della sua corona che acerbe punture. Francesco lI nelle sue acerbezze, ebbe sempre da Dio testimonianza di essergli caro, e che Iddio tanto più lo amava, quanto più esso soffriva. L'intera sua vita con le volontarie sue privazioni e con le sue austerità, era a tutti che lo avvicinavano di edificante esempio”. (Angelo Insogna).
Questa sua austerità e povertà non gli impediscono mai di essere aperto alla carità. Proprio la carità è il segno massimo della speranza. Chi spera ama, e chi ama dona.
Non manca mai di soccorrere il suo popolo ridotto anch’esso in povertà. “Tutte le lacrime dei miei sudditi ricadono sopra il mio cuore… io sono Re, e come tale io debbo l’ultima goccia del sangue mio e l’ultimo scudo che mi resta ai popoli miei”. E questo programma lo ha realizzato fino alla fine della sua esistenza.
Quanta carità è scaturita dal cuore di questo buon Re, forse solamente Dio potrà conoscerla. Sempre disponibile a soccorrere la sua gente che aveva bisogno, e quanti bussavano al suo cuore, privandosi persino del poco o nulla che aveva. Lo stesso Insogna dice: “Dava ai poveri quanto poteva, privandosi pure del necessario”. Egli sa bene che Dio non fa mancare mai la sua grazia a chi dona con gioia. E quindi è stato sempre annunciatore di questa speranza che non delude, sentendosi intimamente spinto sempre a fare il bene, e portando nella sua vita quest’ansia di trasmettere la fede. Quanti incontri con persone lontane da Dio, grazie al suo esempio e alla sua testimonianza, sono stati motivo di conversione. Davvero un uomo che da quegli occhi luminosi sprigiona questa speranza e questa fiducia, che nascono da una intensa vita di preghiera e carità. Tanto che diversi suoi contemporanei lo considerano “un uomo veramente santo”. Basterebbe la sola testimonianza del parroco di Arco di Trento, dove lui passava tanto tempo della sua vita, Mons. Chini, per comprendere chi davvero è stato Francesco II di Borbone. Uomo davvero riservato e umile, devotissimo e “costantemente nella Chiesa, ai Sacramenti, alla Santa Messa, quasi ogni sera al Rosario nella Collegiata… e sempre ne riportava l’impressione di singolare bontà, di gran modestia, e di persona che con grande eroismo sopporta, e vince le prove più dure colla rassegnazione e la fede d’un cristiano perfetto”.
Da ogni suo scritto, in ogni sua lettera, e in tutta la sua vita, traspare la sua fede cristiana, questa sua volontà di bene, questo affetto vivo e fiducioso per il suo prossimo, la sua grande speranza.
Leggendo le pagine del suo diario così semplici e metodiche, scritto nell’amarezza del suo esilio, apparentemente prive di significato, vi si può leggere davvero la personalità di un uomo, un cristiano, che giorno per giorno prende coscienza che il suo passato, il suo presente, e lo stesso futuro, è nelle mani di Dio. In ogni vicenda, ogni ricordo, ogni riferimento, triste o felice, doloroso o consolante, ha sempre presente proprio questa consapevolezza di vivere attimo per attimo al cospetto di Dio, quel Dio che lo chiama semplicemente al bene, e che non avrebbe mancato di dargli l’eredità promessa. Davvero la sua esistenza, vissuta per la maggior parte in esilio, è un prezioso esempio di amore e di speranza per ciascuno, ed un incoraggiamento perché ogni uomo possa ritrovare un futuro di dignità e di pace.